Il dialetto Rocchettano ha avuto molte mutazioni negli ultimi cento anni, inseguito al passaggio del paese sotto la giurisdizione della Provincia di Foggia. Nell'ottocento il dialetto si avvicinava a quello napoletano, con la cadenza partenopea e il suono espressivo campano proprio perché, fino agli inizi del novecento, Rocchetta faceva parte della regione Campania. Nonostante tutto, ancora oggi, si percepisce la cadenza campana
Facendo un balzo indietro negli anni da alcuni documenti si attesta che il rocchettano era un miscuglio tra il dialetto lucano e calabrese poi, con l'influenza degli Spagnoli, ci fu un netto cambiamento che portò il nostro dialetto ad avvicinarsi al napoletano.
Analizzando alcune parole ci si accorge che le sue radici affondano nel francese in particolare, la lingua normanna.
Nel paese si distinguono due tipi di dialetti quello dei “chiazzierë” che rappresentava la gente colta e quello dei “p’scarisë”, ossia il dialetto della povera gente. Sembra che anche nel parlar comune ci siano delle diversità tra ricchi e poveri. Purtroppo con il passare del tempo si è perso il vero senso di queste lingue che resta una colonna portante della cultura popolare del territorio. La nostra associazione ha intenzione di istituire un premio per la tutela del dialetto e di redigere un dizionario della lingua rocchettana; cercando così di ricreare l'attenzione su l'estinzione di una delle basi fondamentali della cultura del paese.

LiberaMente in collaborazione del sig. Chiarolanza Rocco vi propone la prima lista dei soprannomi ufficiale di Rocchetta. Corri subito a visitarla cliccando sul pulsante qui sopra!


Grazie al contributo dei nostri emigranti, l'Associazione Culturale LiberaMente ha organizzato una rubrica con le parole dialettali ormai estinte. Un opera importante per salvaguardare l'identità di un popolo. questo è l'auspicio con cui l'associazione culturale LiberaMente ha promosso la nuova serie di pubblicazioni dedicate agli aspetti importanti del dialetto rocchettano. Le schede tratteranno locuzioni dialettali, ormai sconosciute, con relativa descrizione ed ambito storico in cui la parola era utilizzata. Una sorta di rassegna etimologica alla scoperta delle minuziose e tradizionali parole, spesso al centro di grandi vicende storiche del popolo rocchettano. Il contributo maggiore può venire sopèratutto dagli emigranti, i quali hanno conservato parte del vero dialetto, saltando i passaggi evolutivi della lingua dialettale che da sessant'anni ad oggi hanno ridotto il dizionario dialettale in poche frasi a volte residue di una conoscenza parziale dell'arte dialettale. I bambini non conoscono parole come "Pod'la" o "Tarengula" "Cernicchi'e"... Locuzioni che hanno origini antichissime e che si perdono nella notte dei tempi. L'equipe che sta portando avanti il progetto per ora ha solo il problema di definire la fonetica e il modo esatto per scrivere il dialetto rocchettano. "Aspettiamo aiuti, afferma il responsabile dello staff, sopratutto dagli emigranti, che potranno inviare tramite e-mail qualsiasi commento aiuto o locuzione estinta su cui organizzare il lavoro di ricerca".

Scrivici anche tu all'indirizzo di posta elettronica dialetto@liberamenteonline.com


ALCUNI DETTI IN DIALETTO:

Muglière e figlie cume te re mànna Dije te re piglie (Moglie e figli come te li manda Dio te li pigli)

Mèglie sendì na cambèna re sunè ca na femmena re parlè (Meglio sentire una campana di suonare che una donna di parlare)

Mangè sèmbe rinde a lu stesse piatte stuffa (Mangiare sempre dentro lo stesso piatto stufa)

Mèglie na seggia a na puttana ca na chiacchiera a na ruffiena (Meglio una sedia a una puttana che dire una parola a una ruffiana)

Mèglie nu nemiche dechiarète ca n'amiche maleferète (Meglio un nemico dichiarato che un amico malfidato)

Mèglie murine e nò nehène (Meglio morire che negare)

N'attène e na mamma rànne a mangè ciende figlie, ciende figlie nunn'arrijèscene a dè a mangè n'attène e na mamma (Un padre e una madre danno da mangiare cento figli, cento figli non riescono a dare a mangiare un padre e una madre)

Mèglie cornute ca male sendute (Meglio cornuto che male ascoltato)

Nun se sèpe tenè tre cicere nganna (Non si sa tenere tre ceci in gola)



"Nu CUNNUTT"

Rielaborazione del signor Bruno Ciasca

L’ invito che mi hai fattocon la tua ultima e.mail lo accolgo volentieri per la vicinanzache sento ai vostri principi ed agli scopi della vostra iniziativa che mira a difendere e conservare le nostre radici.

Mi vorreipresentare con alcune parole dialettali e le relative mie considerazioni facendo presente sin d’ora che tutto quanto scriveròha soprattutto valore sentimentale e quindi non tratterò dell’etimologia, della grafia e delle sue regole.

La parola considerata “ ‘nu cunnutt “ credo che sia scomparsa dal lessico verbale del nostro dialetto. Di questo me ne potrete dare voi conferma in seguito.

La mia esperienza, rispetto a questo termine,risale- mi verrebbe da dire alla notte dei tempi- al dopoguerra verso gli anni cinquanta del secolo scorso. Tempi duri, scarsezza di mezzi di tutti i generi, miseria imperante e ciononostante qualche piccolo vizio sopravviveva, come quello del fumo. C’era la possibilità di andare da “ Fonz l’African” a comprare due Alfa,o due Nazionali tutte rigorosamente e gustosamente senza filtro e che venivano consegnate in piccole bustine di carta velina.

I giovani del momento erano quasi tutti privi di lavoro e quindi di risorse;si ritrovavano in piazza, o sotto la chiesa e tra le tante ciance sbucava qualche sigaretta. Noi ragazzini restavamo lì a bocca aperta a sentire le “ avventure “ galanti di quelli più grandi e quando spuntava la sigaretta ci avvicinavamo ancor di più per gustarne anche noi un po’ del profumo.

La sigaretta veniva consumata in società, passandosela ogni tanto. Cosicché si formava un circolo di giovani molto raccoltoper evitare dispersioni temporali nel passaggio della sigaretta che, man mano,diventava “murzon”.Era già piacevole per un occhio estraneo ed osservatore constatare questo raggruppamento di giovani che, seppure per una forma “ fumosa” di vizio si tenevano uno accanto all’altro quasi a voler rendere più forte e sentita la loro amicizia. Per me , che ero un bambino, ricordo questi momenticomemomenti importanti di comunicazionee pensavo che quelli più grandi me si stessero scambiando consigli, suggerimenti, esperienze, storie, racconti .

L’aspetto dei giovani del momento può anche raffrontarsi con il look dei giovani d’oggi. Infatti in testa si utilizzava la brillantina Linetti che rendeva lucide ed unte le criniere di questi giovani puledri. I pantaloni avevano quasi tutti le toppe, e le scarpe erano robuste con suole rinforzate di cendredd e ferrett. I nostri stilisti moderni penso che abbiano inventato ben poco ma abbiano visionato attentamente foto e documenti di quei tempi.

Ritorniamo al momento della trasformazione da sigaretta a “ murzon “ che è difficile tenere tra le dita perché brucia. In quell’attimo compariva, magicamente, uno spillo estratto dall’angolo del bavero della giacca del discepolo del sarto; lo spillo veniva infilato di traverso nella cicca sicchè si poteva tirare ancora qualche“cunnutt”. Ricordo infatti i componenti del gruppo che reclamavano ancora “ nu cunnutt” come fossero passeri implumi che chiedevano cibo.

Quindi “ cunnutt “ come“ tirata, boccata “.

Io ho voluto scrivere di questa parola perché pur essendo un termine molto duro nel suono, mi ricorda momenti puliti di vita giovanile che non hanno nulla a che vedere con ciò a cui dobbiamo quotidianamente assistere. Il malessere giovanile derivante da un periodo di agi e ricchezze materiali contro la spensieratezza, l’ingenuità e la semplicità di una gioventù “ sfortunata ?” che avevavissuto e sofferto la guerra.


Da Rocco Chiarolanza

Dice mia madre che "lu cunnùtt", oltre che una tirata di sigaretta, voleva anche dire "getto di fontana". Ad esempio: "Marònna com' m'nava l'acqua a fundana r' moccia, tinìa nu' cunnutt accussì....".

Mi piacerebbe segnalare, se già non è stato fatto, alcune parole:

1) MASCATURA = serratura, detto anche di ragazza alquanto brutta

2) STIAUCCH= straccio

3) VARDA= basto per asino, da cui anche "t'aggia mbuquà la varda", cioè ti devo pestare a sangue.


Da Bruno Ciasca

Non so se vi siete mai chiesti perché ho scelto la parola “cunnutt” come mio biglietto da visita o di presentazione. Non è stato il primo termine che mi sia venuto in mente ma esso ha un significato più intimo dell’uso che abbiamo sinora accettato.

Io ho voluto iniziare questo colloquio virtuale partendo da qualcosa che avesse a che fare con la bocca, organo principe della comunicazione, per evidenziare questo mio desiderio dipassarvi, con molta modestia, queste mie tracce di cultura paesana che, comunque, richiamano al nostro comune passato.

“Cunnutt” io non la faccio derivare da “cunnuce” cioè inghiottire, buttar giù, fare proprio; bensì per me vuol dire “condotto” o mezzo di trasmissione e come tale posso interpretare anche il detto della mamma del mestrino/rocchettano Rocco Chiarolanza. Infatti quandodice “ funtan ‘r moccia tinia nu cunnutt accussì “ sivuol evidenziare la potente portata della fontana che comunica un senso di abbondante offerta di acqua , bene primario che ci viene generosamente dato dalla natura..

Spero che altri compaesani vorranno contribuire ad allargare il senso di questa parolacosicché si possa fare comunicazione fattiva ( non vuota, fatta d’aria) per arricchire il nostro dialetto e soprattutto tenerlo vivo.

Però la bocca ha un ruolo tuttora importantissimo per la nostra salute e, a tale proposito, vorrei introdurre un’altra mia proposta per la quale devo fare un breve preambolo.

Io sono un frequentatore di mercatini dell’usato nei quali cerco di reperire qualche vecchia edizione di libri di vario genere. Ultimamente ho avuto la fortuna di trovare un libro su Francesco De Sanctis intitolato “La giovinezza “ un’edizione Einaudi del 1961. memore della famosa frase riportata sulla lapide di Rocchetta, ho portato a casa il libro. Nelle prime pagine, che sono quasi un diario, il De Sanctisscrive. “…tra i miei piccoli amici c’era Michele Lombardi, a cui volevo un gran bene, ed era un nostro vicino figlio d’un contadino. Andavo spesso a visitarlo, e sua mamma Rachele mi faceva trovare la migliazza….” Siamo intorno all’anno 1830.

Io non ho un ricordo ben chiaro di questa focaccia – da noi detta mugliazza – cheveniva preparata d’inverno in concomitanza con l’uccisione ( accir lu puorc) o meglio macellazione del maiale. Ed anche su questo soggetto molte cose si potrebbero raccontare ai nostri giovani, ad esempio dell’usanzadella comunità di allevare“ lu puorc sant Rocc “ per poi venderlo o metterlo all’asta in occasione della festa patronale. Lascio questo inciso per non perdermi in altri ricordi.

Dopo la macellazione si utilizzavano piccole parti – vado a memoria – del maiale “ ‘r frittl “ che venivano amalgamate con la pasta di farina di mais“grandinii”. Non ricordo, però, le modalità con cui la focaccia veniva preparata, cotta e se v’erano altri componenti nella preparazione. Anche questo ricordo della mugliazza mi fa tornare agli anni del dopoguerra. Io ho assistito, da bambino, alla macellazione del maiale “ di famiglia “ e devo ammettere che anche questo era un momento di forte aggregazione perché venivano coinvolti tutti i componenti della famiglia per il buon esito dell’operazione e perché niente andasse perduto. Lascio volentieri ad altri la descrizione della macellazione vera e propria anche se qualche lato comico per la rincorsa dell’animale varrebbe la pena raccontare.

A fine giornata il tutto terminava in gloria con una gran cena a base, logicamente, di parti di maiale.

Il giorno dopo, utilizzando, parti non meglio precisate del maiale si preparava la mugliazza che ha lasciato in me un piacevolissimo ricordo per il suo sapore ed anche per il caldo colore giallo con cui sipresentava.

Termino questo mio appunto culinario per sottolineare che la bocca, come organo di comunicazione e come tramite per il nostro sostentamento,potrebbe diventare un soggetto di approfondimento per trasmetterci detti, frasi, proverbi, racconti, poesie e, contemporaneamente, resuscitare antiche e gustose ricette (logicamente il tutto in perfetto vernacolo rocchettano).

Spero di non avervi annoiato e ringrazio per lo squisito senso dell’ospitalità con cui date spazio alle mie “chiacchiere paesane”. Ciao, Bruno.


"cunnutt" a cura dell'equipe progetto dialetto LiberaMente

La Parola "'cunnutt". Francamente é scomparsa, si é estinta anche se facendo una ricerca dopo aver letto le considerazioni dei nostri utenti, qualcuno ancora oggi usa questa locuzione per sopranominare una persona di bassa statura, "non si ald chiù r nu cunnut" - "si com nu cunnut" "e arruat lu cunnut", ultimamente però anche questo utilizzo della parola cunnut é stato sostituito da "micciatl" sempre per disprezzare in senso buono l'altezza di una persona di bassa statura. questa parola però da una nostra ricerca viene utilizzata per persone piccole ma intelligenti e furbe, infatti spesso si accompagna a micciatl o cunnut "piccl..; picccl e mal cvat".

Secondo alcuni Micciatl significa piccola miccia ed era una parte dei tri trac sparati a natale o a Sant'Antonio. Non abbiamo conferma di tale significato, ma da un dizionario etimologico la parola miccia ha origini greco bizantine utilizzata la prima volta in Sicilia e chiamata all'epoca micciola.

Stiamo creando con i vostri contributi una serie di ricerche atte proprio a tutelare la nostra lingua dialettale; La riscoperta dei termini é sopratutto un dovere oltre che un divertimento, difatti scavando nell'etimologia delle parole, si scopre quasi sempre che i termini derivano da circostanze strane o da parole simili alla lingua corrente; per spiegarci meglio vi facciamo un esempio;Una vecchietta non meno di un mese fa, in un incontro, voleva essere scattata una foto; dopo aver scattato la foto abbiamo spiegato all'ottantenne che oggi con le tecnologie a disposizione anche una foto riuscita male, in luce e contrasto, poteva essere modificata qualitativamente, alché la signora ci ha chiesto se si poteva aggiungere anche del rossetto escherzando abbiamo risposto che se voleva potevamo arrossire anche le guance; lei soddisfatta ci ha risposto grazie però "non m fa tropp donna r via nova"; in un primo momento non siamo riusciti a captare il significato di donna r via nova, poi in un gioco di traduzioni abbiamo capito che si riferiva a donna di strada...Questo per dire che costantemente i nostri anziani modificano il dialetto e lo aggiornano traducendo locuzioni di moderna origine con parole dialettali simili; su questa linea stiamo difatti approntando una sezione del dizionario dialettale con le nuove parole tradotte dai nostri anziani tipo Fotocopia = tal e qual termini che possono destare umore ma che realmente appartengono al lessico delle persone più anziane.


"la mugliazza" di Rocco Chairolanza

Dice mia madre: "si mettevano pezzetti di carne di maiale, quelli meno nobili, praticamente scarti, in un pentolone. Quand'erano cotti, essendo pezzi di carne e grasso, rilasciavano sul fondo della padella la "sugna". La carne (r' frittl) veniva raccolta con la "scummarella" (una specie di mestolo con i buchi) e poi veniva impastata con una specie di polenta di grano duro fino a formare un solido impasto. Si poteva anche aggiungere del formaggio di pecora non essendoci all'epoca il grana. L'impasto così ottenuto veniva messo inda nu' ruoto e quindi (all'epoca non c'era il forno nelle cucine di casa) veniva portato a' lu furn."

Mia madre lo portava "a' lu furn r' Strommla - detto anche lu furn Giosafàt a lu lambiòne.

A proposito di "grandinije", l'espressione "hai avùt lu grandinije?" nel senso di "hai preso le botte" deriva per caso dal fatto che i maestri di una volta mettevano sotto le ginocchia dei bambini il grano turco per punizione?

Risposta dell'equipe

Sinceramente, rispondendo alladomanda del signor Chiarolanza;, l'ipotesi del mais come strumento di "tortura" per i ragazzi meno ubbidienti é la via più plausibile su cui puntare una ricerca etimologica per questa frase. Noi invece abbiamo avanzato una altra ipotesi, suggeritaci da un vecchietto di rocchetta . "Hai avut lu Grandinie" significa avere la peggio.. infatti deriva; sempre secondo la nostra ipotesi, dalla civiltà contadina rurale, che nel barattare le merci si trovava a scambi a volte meno equi. Quindi invece del grano a volte bisognava accontentarsi del granturco, un cereale povero, di meno valore.. da qui la frase "hai avùt lu grandinije?". Significa hai avuto la peggio, lo scambio meno equo... in poche parole in nostri antenati utilizzavano spesso assimilare situazioni del mondo contadino con la vita corrente... come ad esempio c'é un detto "scapla sti vov e priestm sta aratr " ("scapola" i tuoi buoi e prestami l'aratro) viene usato ancora spesso anche tra le nuove generazioni...


Alcune riflessioni di Ciasca Bruno

Oggi vorrei cambiare argomento per non sembrare monotono senza, però, perdere di vista il nostro amato dialetto.

Mi è venuta in mente la lapide del De Sanctis ed ho cercato di capire meglio la definizione data dall’insigne letterato di “ Rocchetta la poetica “. Mi sono, così, riletto le pagine de “ Un viaggio elettorale “ dell’edizione critica di Toni Iermano. Ho rilevato che l’appellativo di “ poetica “ fu la conseguenza di una specie di serenata fatta, in onore appunto di Francesco De Sanctis, da alcuni allegri e gioiosi rocchettani la notte della sua permanenza a Rocchetta.

Da allora in poi l’appellativo “ poetica”, capace di inorgoglire chiunque, ha fatto parte della nostra cultura e, quando è stato necessario, lo abbiamo “mostrato” in giro quasi con sufficienza.

Ma io, comunque,mi sono sempre chiesto quanti siano stati o sono i poeti che hanno dato o continuano a dare lustro al nostro paese.Io non ho alcun elemento per dare una risposta a questa mia domanda, però a voi che siete in zona posso chiedervi di rispondermi in merito.

Io penso che la poesia alberghi in ognuno di noi, in un angolo del nostro animo ma non tutti siamo capaci di esporla per iscritto. Però so che non occorre avere tanta cultura, anzi forse la poesia semplice e spontanea è quella che ci colpisce più facilmente e comunica meglio. Dico questo perché ho in mano, da oltre mezzo secolo, una quarantina di strofe di un “poeta” conterraneo che forse nessuno ha conosciuto come tale. Sono versi, trascritti su un quadernetto a quadretti, che io ho sempre conservato perché li reputo interessanti per l’umanità, l’ingenuità e la semplicità che trasmettono.

Siccome penso anche che tanti altri poeti “in pectore” esistano tra i nostri conterranei, propongo che si faccia un appello per “stanarli” e creare, nel vostro sito, un angolo della poesia necessario per far riemergere e giustificare, in qualche modo, la qualifica rilasciata dal famoso critico letterario.

Ho buttato un altro piccolo seme che spero venga raccolto e coltivato.


San Clemente: Caca sang la Campana

Oggi festa a Candela, di seguito una leggenda su questa ricorrenza

In una realtà di asti e campanilismo, si contendevano il territorio i Rocchettani e Candelesi, scambiandosi quotidianamente botte e dispetti. Nella vigila della festa patronale di Candela , San Clemente Papa (23 nov), alcuni Rocchettani diretti a Candela, trovarono nel letto del torrente San Gennaro (Sagninnar' ), un asino morto. Da quel ritrovamento partì la brillante idea di tendere uno scherzo ai conterranei candelesi. prelevarono dalla carcassa il fegato dell'asino e dopo essere giunti a Candela si intrufolarono nella Chiesa Madre, posta nella piazza principale del paese. Due Rocchettani iniziarono a distrarre il sacrista (lu sacrestan') chiedendo gli orari delle Sante Messe, mentre altri salirono sulla torre campanaria e con un geniale colpo di mano legarono il fegato al batacchio della campana, uscirono dalla Chiesa è scapparono vero Rocchetta (la Rocca). l'indomani di buon mattino il sacrista dopo aver aperto la Chiesa si diresse nella torre campanaria per suonare le campane a festa e per annunciare alla popolazione l'inizio delle liturgie. al primo rintocco il sacrista si accorse che la campana piangeva sangue e credendo nel miracolo corse dall'arciprete esclamando per le vie del paese: " a fatt lu miracul san Clemente ... caca sang la cambuana ".alle urla del sacrista tutti accorsero e si precipitarono nella Chiesa ad ammirare il miracolo. Arrivò subito anche l'arciprete che suonando più forte la campana fece slegare il fegato dal batacchio e dopo una caduta di svariati metri si ritrovò il fegato dritto sul volto, facendo ridere i rocchettani che in lontananza osservavano il buon esito dello scherzo...


Alcune parole suggerite da Rocco Chiarolanza

Segnalerei anche altre parole così come le ho sentite dai miei genitori o da rocchettani in genere:

arzùle o R'zul = specie di caraffa di terracotta con apertura sagomata a becco per versare il vino nelle cantine (per es. "sott'a Ciullo)";

giarla = caraffa di vetro;

cuccuàscia = civetta (o barbagianni?);

sartùscena = tartaruga;

taréngula= travetto di legno per chiudere una porta;

n'zurà = sposarsi;

sciammèreca = 1) abito trasandato, palandrana;2) coito detto molto volgarmente per es. "m' sò ricriàte, m'agge fatt na' sciammèreca......!"

lu m'sale = la tovaglia per la tavola

la tuvaglia = l'asciugamano

lu s'nale = il grembiule

allascenàte = spaparanzato, sdraiato beatamente.

Questa invece l'ho sentita da bambino a Rocchetta detta da un giovane che vantava le sue imprese erotiche:" m'have fatt' fà sulu nu' fracosce".

E con questo vi saluto

Rocco Chiarolanza


Vi proponiamo una poesia di Antonio Fierro, suggerita dal nostro caro amico Bruno CIASCA

La più bella poesia

di Fierro Antonio

La più dolce poesia

è quando si nota il passero

con la pagliuzza nel becco

per costruire il suo nido....

Oppur la mucca

che lecca il vello del figlio

appena nato...

La mano del bimbo che aiuta

la nonna ad attraversare la strada.....

Due innamorati che incrociano

i loro occhi

e si giurano intenso amore....

La più bella poesia

è vivere con semplicità la Vita.

La poesia è desunta da"Ritratti" poesie , edizioni Il Grappolo.


Coincidenze

Le coincidenze che a volte si verificano, ci fanno pensare e poi ci chiediamo perché come mai sono successe.

Questo caso, che interessa logicamente la comunità di Rocchetta, mi è stato raccontato di mio zio Peppiniello che faceva il sarto a Torino e si può dire che tutta la sua attività l’abbia svolta nel capoluogo piemontese e che, ciononostante, era rimasto rocchettano a tutti gli effetti. Ebbe un ottimo rapporto con i conterranei emigranti che venivano ricevuti nel suo laboratorio in tutte le ore del giorno. E forse da uno di questi emigranti mio zio era venuto a conoscenzadella storiella che sto per narrarvi che, toccando un po’ la morale cattolica, lui la tramandava di nascosto, o comunque, a bassa voce.

Un prete (innominato) che da tanti anni era parroco della nostra Chiesa Madre e, pertanto,faceva il bello ed il cattivo tempo, aveva alle proprie dipendenze un sacrestano “ factotum” che era vessato da tutte le angherie possibili secondo gli umori del parroco.

Stanco per questi atteggiamenti e forse anche in arretrato per le proprie spettanze il sacrestano decise di farla pagare al prelato o, perlomeno, di fargli capire che era ora di trattarlo come una persona e non come un animale. E quando poteva colpirlo se non quando era a contatto con i fedeli in maniera da renderlo ridicolo?

Il sacrestano decise, pertanto, di andare “sott a lu castiedd “ per trafugare dal nido “na cuccuascia “. Così fece e rapì la bestiola, non senza aver penato. La tenne qualche giorno a digiuno e un bel mattino, ben presto, si recò di nascosto in chiesa, aprì il tabernacolo e vi rinchiuse dentro la civetta affamata.

Alla prima messa delle sei le solite beghine si ritrovarono in chiesa e si apprestarono a seguire la sacra funzione. Il parroco a quell’ora era ancora alquanto addormentato e quindi svolgeva la funzione quasi in trance minimamente preoccupato di sbagliare perché tanto nessuno se ne sarebbe accorto.

Tutto si svolse nella normalità tra uno sbadiglio e l’altro delle fedeli che non vedevano l’ora che la messa terminasse per poter continuare a chiacchierare con le altre perché, in fondo, questo era il motivo principale di una sveglia così mattutina.

Giunto il momento della comunione, le fedeli si avvicinarono alla balaustra e, frattanto, il parroco si era approssimato al tabernacolo; apertolo, infilò la mano per tirar fuori il calice delle ostie. A quel punto si sentì beccare con violenza sulla mano che ritirò immediatamente.Non aveva più alcun segno di sonnolenzae tentò nuovamente d’infilare la mano che, puntualmente, fu colpita dal becco della civetta tanto che gli cominciò a sanguinare l’indice destro. Si leccò la ferita e, preoccupato, infilò con gran timore, per la terza volta la mano nel tabernacolo e ancora fu colpito con violenza dalla civetta affamata.

Le fedeli dapprima s’incuriosirono per questi gesti strani e rapidi che faceva il parroco e poi si preoccuparono perché la funzione aveva avuto un’ insolita fermata.

Dopo questo terzo e vano tentativo, sudato per la paura e preoccupato per la situazione insolita, il parroco si girò verso le fedeli epronunciò le seguenti parole: “ Figliò osc non ‘v pozz rà la cumunion, pecchè lu patratern ten li cazz ‘n cap”.

Frattanto il sacrestano nascosto dietro una colonna sghignazzava e si fregava le mani contento perché la sua vendetta si era compiuta. Le fedeli, guardandosi in faccia, meravigliate da simile espressione, uscirono dalla chiesa senza neanche attendere il canonico “ite missa est “.

Ora torniamo alla miaespressione iniziale per precisarvi quale sia la coincidenzache mi ha convinto a scrivere queste poche note.

Mi è capitato di leggere il libro “Microcosmi “ di Claudio Magris e in uno dei capitoli intitolato “Collina” esattamente a pagina 123 si legge quanto segue. Faccio presente che il capitolo tratta dei dintorni di Torino ed in particolare dei paesi che sono in collina ed in particolare di alcuni fatti che nel passato sono successi:

…….”Il viaggio in Collina non segue il tracciato rettilineo del tempo e della sua freccia irreversibile, ma va a zig zag, sabotando il tempo, gettandolo via e ritrovandoselo in mano come il disco di un yo-yo. Magariva a finire che non si riesce neanche ad arrivare a Cambiano; da Chieri sono pochi chilometri, ma non si può mai dire, ogni strada è lunga e le complicazioni non mancano mai. Quel prete di Cambiano, per esempio, spesso durante la Messa non riusciva ad aprire il tabernacolo per tirare fuori le ostie, per lui era un vero cruccio, girava e rigirava la chiave, col chierichetto inginocchiato dietro a lui, borbottando “cosa diau a jè si ‘ndrinta “ e così anche la Messa andava per le lunghe. “

La traduzione della frase detta in dialetto piemontese è la seguente:” che diavolo c’è qui dentro ?”

Mi è sorto spontaneo l’abbinamento di questi due fatti di cui uno narrato da uno di noi e l’altro, invece, riportato da un illustre scrittore.

I due fatti , nella sostanza, si assomigliano molto perché i due parroci non hanno potuto esercitare appieno la loro funzione einterrompono la messa con un’espressione che è totalmente fuoridai canoni del linguaggio ecclesiale. Oggi, aloro scusante, diremmo che tutti e due i preti erano sicuramente stressati e, forse, li giustificheremmo.

Comunque le figure dei due prelati mi sono parse simpatiche forseperché più vicine al nostro vivere quotidiano. La nostra cultura ed educazione ci portano, magari, ad elevare moralmente questi personaggi mentre, in definitiva, dovremmo pensare che, come tutti gli uomini, anche i preti possono essere facile preda di…….scivoloni linguistici come di tanti altri difetti umani.

Queste mie brevi note improntate da espressioni dialettali, alquanto fuori della norma, servano per stemperare le tensioniche quotidianamenteci perseguitanoed augurarvi un Nuovo Anno ricco di segni di affetto ed amicizia.

Bruno CIASCA

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